La storia di Elena Di Porto è la storia di una donna ribelle, incapace di tollerare le ingiustizie, che viene ben dipinta, in uno dei momenti più drammatici della sua vita, di cui ora riferisco, con queste parole: “Vestita di nero, scarmigliata, fradicia di pioggia”.
Era nata a Roma, nel quartiere ebraico, l’undici novembre del 1912, dove era sempre vissuta sino a quando glielo hanno consentito. La conoscevano tutti come “Elena la matta” e chi le voleva un po’ di bene, a piazza Giudia, la chiamava: “Elenuccia la matta”; era una sorta di titolo che le era rimasto cucito addosso in conseguenza della sua travagliata vita, tanto diversa da quella delle persone che comunemente si definiscono normali. Era nata da una famiglia ebrea molto povera ed aveva vissuto sempre in condizioni disagiate e tra tanti stenti. Giovanissima si era sposata, ma il marito, con cui molto presto aveva avuto due figli, non aveva nessuna propensione per il lavoro ed il fatto che non portasse mai i denari necessari, a casa, era motivo di continui litigi. Un giorno e dopo l’ennesimo diverbio, a causa della indolenza dell’uomo, che Elena, da sempre, esortava inutilmente a trovarsi un lavoro, avendolo visto seduto al tavolo di una osteria, erano venuti alle mani e lei gli aveva inferto tre coltellate ad una gamba. E così il matrimonio era finito. Elena viveva la difficile condizione della separata, già di per sé, all’epoca motivo di disdoro sociale, con grande naturalezza, passando le sue giornate in piazza Giudia, dove aveva una parola per tutti, fumando, giocando a biliardo con gli uomini ed andando alle partite di calcio. Tutte cose, in quel periodo, proibite ad una donna normale ad una signora. Aveva una parola anche per i fascisti ma era, costantemente, un improperio.
Nel suo fascicolo, redatto dalla autorità di pubblica sicurezza del tempo, il questore Palma scriveva che la Di Porto non era antifascista, ma i fascisti non le piacevano. Questa sua avversione non sapeva tenerla dentro, giacché per sua natura era sempre pronta ad esternare e si accendeva subito davanti alle ingiustizie. Non erano rare quelle volte che incontrando gruppetti di camice nere, in piazza, gli rivolgeva atti di scherno, provocando, accese gazare, assolutamente provvidenziali per tanti giovani ebrei, che avvertiti dai clamori, avevano il tempo per precipitarsi a fare ritorno a casa. Il suo patentino di matta le aveva consentito sino a quel momento di non avere serie conseguenze da questi alterchi. Ma non sempre le cose vanno allo stesso modo. Nei giorni della primavera del 1938, che seguirono la promulgazione delle leggi razziali, Elena si sentiva ancor più oppressa. Il 14 maggio si trovò a scorgere dei giovinastri, in camicia nera, intenti a schiaffeggiare, un anziano colto, per la via, mentre leggeva l’Osservatore Romano, il giornale della santa sede, ritenuto dai fascisti una pubblicazione avversa al regime. La Di Porto, non ebbe un solo attimo di esitazione al cospetto di tanta brutalità e quindi senza pensarci due volte, si avventò sui fascisti e fu un rapido turbino di sganassoni, calci e pugni, che abbondanti i contendenti, si scambiarono. Questo episodio, peraltro non proprio onorevole per quegli uomini in divisa non poteva restare privo di conseguenze per la intraprendente e manesca popolana. Infatti qualche giorno dopo, venne prelevata dalla propria abitazione e condotta a Regina Coeli, dove rimase una settimana. Tornata in libertà venne ben presto scoperta al mercato mente era intenta a distribuire volantini, questo episodio le valse il riconoscimento di elemento avverso al regime ed in conseguenza le vennero inflitti tre anni di confino. Riavuta la libertà nell’agosto del 1943, tornò subito in Roma nella sua piazza Giudia. Erano giorni in cui gli eventi incalzavano sconvolgenti ed inattesi: il 10 luglio gli Alleati sbarcavano in Sicilia, il 19 avveniva il grande bombardamento di Roma, con diversi quartieri completamente rasi al suolo e più di tremila morti. L’8 settembre il governo rappresentato dal generale Badoglio firmava l’armistizio ed i nazisti per reazione invadevano il Nord Italia. Elena non poteva restare inattiva in questo contesto ed il 9 settembre, alla testa di un gruppo di ben cento giovani, diede l’assalto ad un’armeria nel tentativo di armarsi. Il giorno dopo la donna prendeva parte ai combattimenti di Porta San Paolo insieme ai partigiani ed a frange di soldati dell’Esercito Italiano.
Infine, il 15 ottobre Elena veniva a sapere, casualmente, che l’indomani i nazisti avrebbero effettuato il rastrellamento del ghetto. Ancora una volta nella sua vita non può restare inerme, sente forte il dovere di salvaguardare gli altri. Incurante della pioggia, sola, quando orami era calata la notte giunge nel quartiere ebraico, parla con tutti, li avvisa di quanto sarebbe accaduto l’indomani, cerca anche il rabbino, ma non viene creduta, tutti restano increduli e diffidenti, non la ritengono attendibile, con la loro logica non si spiegano le ragioni di un simile efferato gesto. Nessuno le crede, anzi la sua concitazione suscita diffidenza, e del resto chi potrebbe dare ascolto all’allarme dato da una chiamata, così come tutti la conoscevano. L’indomani inesorabilmente ci sarà il rastrellamento ad opera dei nazisti e 1024 persone saranno potate via. Solo sedici faranno ritorno dai campi di sterminio. Ma l’amore per il prossimo di Elena è incontenibile, quel fatidico sedici ottobre lei ed i figli sono già in salvo, fuori dal ghetto, ma saputo che la sorella ed i suoi cinque bambini stanno per essere deportati e sono già sui camion, li raggiunge per stare con loro, per non lasciarli soli, per difenderli, se possibile, dagli aguzzini e comunque come dice lei: “ci aiuteremo a morire”. Elena condividerà il destino di tutti gli altri e sarà subito assassinata ad Auschwitz, appena arrivata, in quanto in quel momento il campo era pieno ed i nuovi arrivi erano sovrabbondanti.
Solo da pochi anni, grazie alle ricerche effettuate presso l’Archivio Centrale dello Stato, dove sono custoditi i fascicoli di polizia che riguardano Elena, la storia ha cominciato a comprendere e guardare con interesse alla difficile vita di “Elena la matta”, solo ora inizia ad emergere la dovuta considerazione per la sua figura di indomita ribelle, che con il suo non comune coraggio vuole ricordarci che la disperazione causata delle avversità della vita può essere scambiata per follia, ma, comunque, nessuno, mai, dovrebbe dimenticare che le persone si giudicano per il valore delle loro azioni e non per i loro incomprensibili comportamenti, giacché la nostra incapacità di comprendere non ci autorizza a condannare.