Il lungometraggio “One of us”, ora visibile sulla piattaforma Netflix, torna a occuparsi della vita nelle comunità ebraiche cassidiche di oltreoceano. Il docufilm ha come trama la storia della fuga di tre persone dalla loro famiglia e dalla loro comunità religiosa.
Come la miniserie “Unorthodox”, di cui abbiamo parlato nella pubblicazione precedente, affronta il rebus dei vincoli non più tollerati e dei conseguenti disagi connessi all’allontanamento dalla comunità ultraortodossa di appartenenza, l’angoscioso senso di disadattamento dei fuggitivi, che viene alimentato dal doloroso rifiuto contrapposto dai membri della comunità.
Entrambi i prodotti, di analogo tema, sono ambientati nelle comunità ultraortodosse di Brooklyn, malgrado ciò il livello di gradimento delle due opere sia totalmente diverso. “One of us”, che ha registrato l’apprezzamento complessivamente positivo della critica, è pervaso da un cupo senso di malinconia, che deriva dalla mancanza di prospettive dei protagonisti, che si affannano nel tentativo di integrarsi nella società laica. Questo senso di angoscia continua che pervade gli spettatori, viene fomentato per tutta la durata del film dalle inquadrature di scena, quasi sempre con un campo incompleto e volutamente non centrate sui protagonisti, che alla fine hanno l’effetto di stancare lo spettatore a cui, però, riescono a trasmettere per intero il senso dell’isolamento, che resta il filo conduttore dell’intera trama.
Opere come queste, dai toni quantomeno malinconici, non hanno fatto che suscitare diffidenza verso il mondo ultraortodosso ed essere alimento per l’odio antiebraico. Un’impressione completamente diversa sull’ortodossia ebraica si ricava, invece, da una recente intervista rilasciata da Beatie Deutesch, giovane donna israeliana e atleta di successo, nata trenta anni orsono negli Stati Uniti, che dal 2008 vive in Israele, insieme al marito e ai loro cinque figli. La sua passione è la corsa e a febbraio di quest’anno, dopo tante affermazioni in ambito nazionale, ha colto il suo più brillante successo internazionale aggiudicandosi la mezza maratona di Miami. Le sue prospettive, ormai, sono di rappresentare lo Stato ebraico alle prossime Olimpiadi di Tokyo, quando il Coronavirus lo permetterà.
Il suo messaggio di donna ultraortodossa e di atleta di valore è molto semplice e solare e nulla ha a che spartire con gli accigliati racconti dei film di cui abbiamo parlato. Beatie afferma: “Il nostro ruolo nel mondo è mettere a frutto, nel modo migliore, i doni che il Signore ci ha fatto. A me ha dato la forza e il talento nella corsa”.
Aggiunge chi scrive, anche la determinazione, giacché ben cinque gravidanze non hanno inciso sulla sua volontà di allenarsi e competere. Beatie, non manca di precisare: “Tutto ciò nella modestia e rispettando la Halakhah, la legge religiosa ebraica”.
Infatti, corre indossando una particolare tuta che le copre spalle e ginocchia, cosa che non fanno altre atlete anche sue connazionali, con la consapevolezza che quest’abbigliamento rallenta, anche se di poco, la sua performance. Ma per lei è più importante il rispetto dell’Halakhah, che lucrare qualche minuto di vantaggio, tanto sa che vincerà egualmente, perché una spinta in più e in avanti le viene da tutto ciò in cui crede.