Trent’anni dalla scoperta del mikweh di Siracusa
SIRACUSA - Nelle scorse settimane si è svolto in città un’importante convegno sui siti e la storia dell’ebraismo nella Sicilia orientale. L’evento è stato voluto in occasione della ricorrenza dei trent’anni dal ritrovamento del Mikwe (locali del bagno rituale), avvenuto nel quartiere ebraico della città, nell’isola di Ortigia, in occasione della ristrutturazione del Palazzo Bianca.
I locali si trovano a diciotto metri al di sotto del piano stradale di questo edificio e per raggiungerlo occorre scendere ben cinquantadue gradini, che vale la pena di percorrere, in considerazione della forte suggestione del sito. Il Mikwe è il segno più tangibile di quello che è stata, in altra epoca, la Giudecca di Siracusa, dove vivevano cinquemila ebrei e il quartiere era ricco di vita. Sorgevano nel suo perimetro abitazioni e locali in cui si svolgevano i commerci e vi era pure un ospedale, ben dodici sinagoghe e si contavano tre mikweh. Un’epoca drammaticamente conclusa e cancellata nel 1492, allorché Isabella di Castiglia e Ferdinando II d’Aragona decretarono la cacciata dal loro regno di tutti gli ebrei che non si fossero immediatamente convertiti al cristianesimo.
Copiosa letteratura di incontestata rilevanza storica, comprova che anche Catania accogliesse una non meno importante, per numero e radicamento nel territorio, comunità ebraica. Ma nella cittadina etnea non sono stati, almeno fino a oggi, rinvenuti i resti di edifici di un qualche rilievo che non abbiano subito pesanti rimaneggiamenti. Ciò è dovuto al fatto che sulla città si sono abbattuti, nel corso dei secoli, diversi eventi catastrofici. L’eruzione dell’Etna del 1669, la cui lava copri quasi l’intera città, giungendo sino al mare; il successivo terremoto del 1693, la cui forza distruttiva fu di eccezionale portata; l’incendio del 1944, appiccato da un gruppo di giovani rivoltosi, che temevano la chiamata alle armi nella guerra che volgeva alla fine e le cui sorti erano ormai segnate (le fiamme si trasmisero anche all’Archivio storico, consegnando per sempre all’oblio tanta memoria cittadina).
Ovviamente, a Catania non sono mancati i ritrovamenti di reperti di piccole dimensioni, che la terra, in tante occasioni, ha restituito. Tra i più noti vi è la lapide funeraria, tornata alla luce nel 1929, in occasione dei lavori di scavo per la sistemazione della scalinata della chiesa di Santa Teresa, in via Antonino di Sangiuliano, dalla cui iscrizione è desumibile la precisa datazione all’anno 383.
Ma lo stato delle conoscenze in merito alla popolazione ebraica catanese è stata rivoluzionata dal rinvenimento, avvenuto pochi anni orsono, nell’Archivio storico dell’Università di Catania, di una tesi di laurea discussa il giorno 21 novembre del 1900, da uno studente il cui nome era Carmine Fontana. La dissertazione che concludeva gli studi di Lettere e Filosofia è intitolata “Gli ebrei su Catania (sec. XV)” e ha il pregio di essere stata condotta, sul piano della metodologia della ricerca storica, con un’attenta rilevazione di tanta e tanta documentazione, oggi certamente perduta per sempre. La tesi è attualmente consultabile e scaricabile dal sito web dell’Università di Catania.
Ciò che maggiormente colpisce del manoscritto del Fontana è la puntuale ricostruzione dell’assetto urbanistico delle due giudecche catanesi, la cui popolazione, comprensiva anche degli ebrei che vivevano in altre zone urbane, raggiungeva poco meno di un settimo dell’intera cittadinanza. È evidente anche l’obiettivo apprezzamento della conseguente rilevanza economica della comunità nell’ambito cittadino, tanto che, conclusivamente, Fontana afferma: “Chi farà la storia di Catania non può, né deve in alcun modo trascurare d’occuparsi de’ Giudei. Questo io ho fatto cercando di trattare con amore, ma a un tempo con imparzialità”.
Lo scritto non tralascia di evidenziare, contrapponendolo a questi positivi riscontri demografici ed economici, l’atteggiamento della classe politica dominante, espressa dal senato catanese, che nel giugno del 1942, tralasciando e accantonando la sua abituale indolenza nella gestione della Cosa pubblica, pose in esecuzione con fermezza e precisione gli ordini regi, affinché l’espulsione di questa popolazione incolpevole avvenisse quanto più rapidamente possibile e con la massima accuratezza. Ma non sfuggirà a nessuno come chi dovette abbandonare ogni cosa nel volgere di pochi giorni, non poteva che disfarsi, a prezzo vile, di tutto quanto non gli era possibile portare con se, con il rispondente vantaggio di coloro i quali restavano e acquistavano.
Trascorsi silenziosamente i secoli, oggi la stessa fascia ionica della Sicilia, così come tutto il meridione d’Italia, vede un rifiorire dell’ebraismo e un riaccendersi dell’attenzione su tutto quello che lo stesso comporta: stile di vita, alimentazione (kashrut), tradizioni e cultura. L’aspetto associativo locale è al momento caratterizzato da un procedere carsico, che compare all’attenzione dei più, in occasione di manifestazioni ed eventi, come quello di cui si è accennato, per poi scomparire, per mesi, nel silenzio più assoluto.
La sinagoga, come amano ripetere gli ebrei, è “La casa di Dio e la Porta del Cielo” e la sinagoga, ortodossa, di riferimento per tutto il Meridione d’Italia, ha sede a Napoli. Nella città partenopea, si trova a due passi dalla trafficatissima piazza Martiri, alla fine del Vicolo Santa Maria a Cappella Vecchia. Chi, per la prima volta, si addentra in questa suggestiva e tranquilla viuzza, lasciandosi alle spalle il clamore di un traffico automobilistico caotico e rumoroso, ha la sensazione, d’improvviso, di essere entrato in un luogo magico, in cui il tempo si è fermato. Ma saranno i militari, sempre presenti alle porte del luogo religioso, per vigilare sulla sua sicurezza, a ricondurlo garbatamente alla realtà.
La sinagoga è retta dal Rabbino Ariel Finzi, di natali piemontesi, il quale ha condotto i propri studi presso il Collegio Rabbinico di Torino e ha pure studiato ingegneria informatica in Israele. Il Rav, è così che si chiama nel linguaggio corrente, beneficia della collaborazione di un gruppo di donne e di uomini di notevole spessore umano e culturale. In questo contesto di dinamica modernità, la comunità folta e molto attiva, costituita prevalentemente da residenti, è ben inserita nella vita cittadina e intrattiene al meglio contatti interreligiosi. Non manca una nota di particolare colore, costituita dalla frequentazione delle funzioni del rito, da parte degli studenti stranieri, di fede ebraica, dell’Università di Napoli Federico II.
Giuseppe Sciacca