Sono il bersaglio prediletto di molte omelie di Papa Francesco e dei moralisti elitari. Ma i “sepolcri imbiancati” hanno salvato l’ebraismo e plasmato la civiltà occidentale.
Papa Francesco li ha attaccati quattro volte soltanto nell’ultimo mese. Il 6 novembre: contro “i farisei che si fermano a metà cammino”, a cui “importava che il bilancio dei profitti e delle perdite fosse più o meno favorevole”. Il 31 ottobre: contro i farisei che chiedono a Gesù se sia lecito guarire i malati di sabato. Il 17 ottobre: contro il “lievito dei farisei”, che è l’ipocrisia, per cui si “fa finta”. Il 12 ottobre: contro “l’abitudine di collocarci comodamente al centro, come facevano i farisei”. Il 19 settembre: contro “l’atteggiamento degli scribi, dottori della legge e farisei”. E prima ancora, omelie contro “i farisei che non sapevano carezzare”.
Con due millenni di tradizione alle spalle, l’antifariseismo è uno tra i rari ubi consistam cristiani su cui più non ci si interroga. Quasi un must ecumenico, un genere letterario. San Giovanni Bosco, nella sua “Storia Sacra scritta per il popolo e i giovani”, afferma: “I farisei facevano consistere tutta la loro pietà nel portamento esterno, riputando lecita ogni sorta di nequizia, purché si facesse in segreto. Una parte degli ebrei d’oggi segue ancora la dottrina dei farisei”. Sull’onda delle invettive di Gesù contro questi “sepolcri imbiancati”, la parola fariseo è diventata la più insultante del vocabolario cristiano.
Egocentrici, melliflui, avidi, legalisti, ostentatori, crudeli, affamapopolo per arricchire la Sinagoga, elitari. Gli ebrei farisei sono stati ingiuriati in tutti i modi possibili. “Fariseo quattoquatto”, quello che cammina affettato per far mostra di umiltà; “fariseo spalla”, che porta con ostentazione le buone opere, fino al “fariseo contuso”, che riportava ferite andando a sbattere contro i muri per non voler guardare le donne.
L’aggettivo “farisaico” entra persino nella fisiognomica, perché come riporta Francesco Cardinali nel suo “Dizionario portatile della lingua italiana” del 1827, il “viso da fariseo” è sinonimo di bruttezza. Si arriva all’uso extrateologico, con “Il Vangelo secondo Matteo” di Pier Paolo Pasolini che rese familiare il grido “Guai a voi, scribi e farisei ipocriti!”. E Friedrich Nietzsche, che poco prima di diventare matto scrisse contro “il rauco e indignato abbaiare dei cani malati, la falsità e la rabbia che morde di tali farisei”. Che ormai l’odio per i farisei abbia una tradizione extracristiana lo riconosce anche Benedetto XVI nel “Gesù di Nazareth”: “Non sono solo le interpretazioni passate della storia di Gesù a rappresentare i farisei, i sacerdoti e i giudei in generale quali figure negative. Sono proprio le presentazioni liberali e moderne a proporre nuovamente il cliché dei contrasti: farisei e sacerdoti appaiono quali rappresentanti di una legalità indurita, della legge eterna di una struttura ormai stabilita, delle autorità religiose e politiche che ostacolano la libertà e vivono sottomettendo gli altri”.
Nei testi di spiritualità, sui quali hanno basato la loro formazione ascetica preti, monaci, religiosi, religiose e laici devoti di ogni sorta, il fariseismo è la quintessenza dell’ipocrisia, il compendio delle non virtù. Attacchi continui ai farisei si trovano negli scritti di don Lorenzo Milani, il prete di Barbiana, e del monaco Enzo Bianchi, esponenente di quella cristianità innamorata di se stessa, problematica, flagellante, scuola di modestia tranne che per i suoi portavoce, sempre ermetici ed elitari, altro che i farisei. Più che pensiero debole, metafisica fragile. Genere un solo Dio, molti nomi per dirlo. Proprio coloro che si dimenticano la lettera privilegiando il puro spirito.
E poi ancora gli editoriali di Famiglia Cristiana, che ha scomodato i farisei addirittura per attaccare “la casta”. “L’ipocrita fariseo senza sete di verità”, recitava un editoriale dell’Unità. E durante la lunga notte di Mani pulite anche il procuratore di Milano, Francesco Saverio Borrelli, vergava scritti antifarisei sul Segno, mensile della diocesi ambrosiana.
Dagli anni Ottanta c’era stata una positiva rivalutazione dei farisei nella chiesa cattolica, che sembra venire meno sotto il pontificato di Francesco. Del resto, a guardar bene dentro il Vangelo, si vede che Gesù ha avuto anche molti amici tra di loro, come Nicodemo e Giuseppe d’Arimatea. San Paolo stesso si vanta di essere “ebreo da ebrei, secondo la Legge fariseo”. Lo scrittore americano Chaim Potok li chiamava “i vecchi cortesi dalle fluenti barbe bianche”, “i seguaci appassionati degli insegnamenti degli scribi, in molti casi abili con la spada e la lancia così come con i testi della legge, pronti a uccidere per amore del loro Dio”.
Un altro grande studioso dell’ebraismo come André Chouraqui, nella sua “Storia del giudaismo”, ha scritto che i farisei ebbero un ruolo determinante non soltanto nella vita religiosa di Israele, ma anche in quella “dell’umanità”. Furono loro, “gli ipocriti”, a introdurre nella cultura ebraica inferno e paradiso, risurrezione dei morti e ruolo degli angeli, e la cultura cristiana occidentale ne è soltanto erede. Sono i farisei i primi a parlare di “predestinazione”.
Forse Papa Francesco cambierebbe idea sui farisei se leggesse un testo dimenticato di un grande esegeta dell’ebraismo come Leo Baeck. Si tratta di “Die Pharisäer”, pubblicato da Schocken Verlag a Berlino nel 1934. Il “Feldrabbiner” Baeck venne confinato nel ghetto di Theresienstadt, dove rimase per più di due anni e impartì ai deportati lezioni di Talmud, drammaturgia greca ed etica kantiana. La Shoah si portò via quattro sue sorelle. Dopo la guerra insegnò negli Stati Uniti, dove ebbe allievi straordinari come Leo Strauss, con frequenti ritorni a Londra presso l’istituto che porta il suo nome e da dove passarono personaggi come Hans Jonas. Baeck morì nel 1956.
Il suo libro voleva essere una risposta alla massima autorità teologica del tempo, Adolf Harnack, e al suo “L’essenza del cristianesimo”, il campione della teologia cristiana progressista che intendeva dividere il cristianesimo dall’ebraismo in un momento fatale per le sue sorti in Europa. In quello stesso periodo, un altro grande studioso di ebraismo, l’inglese Travers Herford, scrisse un libro a favore dei farisei. “Il fariseismo è stato il grandioso tentativo di fare della religione la religione della vita, della vita del singolo e di tutti, in modo che la religione camminasse di pari passo non solo con l’uomo, ma con la comunità, con lo stato”, scriveva Leo Baeck. Baeck ricolloca il messianismo di Gesù nelle vicissitudini dei farisei. Ricorda che la parola “Vangelo” deriva dal Libro dei Profeti, che il numero quattro corrisponde alla visione celestiale di Ezechiele, che l’asino con cui Gesù entra a Gerusalemme è un cardine della tradizione sapienziale, che i libri di Daniele e dei Maccabei offrirono le storie dei martiri, che i Proverbi e il Qohelet sono un modello per gli adagi, che la Passione è presente nei Salmi sul Servo Sofferente e il tradimento di Giuda nel pugno di monete d’argento di Amos. E cosa sperimentò Cristo se non “l’elezione nella fornace della povertà” di Isaia?
Baeck è attratto gelosamente dalla figura del Cristo fariseo, che morì come membro del suo popolo, fedele alle sue pratiche, figlio della speranza ebraica e “resuscitato dai morti il terzo giorno”, come dicevano i Profeti. Il Vangelo è “un libro integralmente e perfettamente ebraico”, celebra la fede, l’oppressione, la sofferenza, lo spirito, la disperazione e l’attesa ebraica. Per questo “l’ebraismo non ha il diritto di passare davanti a esso senza fermarsi, di ignorare e di cercare di rinunciarvi. Anche qui deve cogliere e conoscere il proprio genio”.
In quegli anni anche l’esegeta Joseph Klausner, lo zio dello scrittore israeliano Amos Oz, difendeva i farisei: “Se per ipocrisia si intendeva l’autocontrollo e per pedanteria l’insistenza nell’osservanza di ogni minuzia della Legge, essi erano colpevoli di ambedue. Ma erano immuni dalla colpa di falsità, di fanatismo e di ipocrisia e dei motivi che erano attribuiti loro come ai puritani della nostra epoca”. Parole di una certa attualità.
Nel 1940 il rabbino Louis Finkelstein, il presidente del Jewish Theological Seminary of America scomparso nel 1991, in uno studio sui farisei, scriveva: “Non c’è alcun dubbio che il cristianesimo derivò in più gran parte dal giudaismo farisaico. Gesù e i suoi discepoli non appartenevano al partito sacerdotale aristocratico dei Sadducei, ma all’umile popolo che seguiva i farisei”. Per questo lo studioso F. C. Baur definirà i farisei “pii democratici”. “Gesù può avere esposto alcuni insegnamenti differenti da quelli dei farisei o può, in alcune questioni, aver dissentito dall’interpretazione farisaica della Legge; ma nella maggior parte della sua dottrina egli è pienamente d’accordo con i farisei e le sue massime riecheggiano le sentenze di quei maestri”.
Di recente uno dei più stimati specialisti ebrei dei Vangeli, il filosofo francese Armand Abécassis, ha scritto un monumento ai farisei in “La pensée juive”. Sotto la dinastia asmonea ne vennero crocifissi migliaia, come ci informa Giuseppe Flavio. Per fedeltà alla Parola, per il rifiuto di compromissioni con il potere, per l’apertura verso il popolo, per non essere integrabili nella secolarizzazione a carattere sincretistico cui la cultura greca sottoponeva da decenni l’ebraismo, fra cui il terribile divieto di circoncisione. Come scrive Helmer Ringgren nel suo studio su Israele, “tutta la letteratura rabbinica, dalla Mishnah al Talmud, è una derivazione dei farisei”.
Il grande Arnaldo Momigliano li ha celebrati come “gli indomiti” che rifiutavano qualsiasi giuramento ai romani. Se oggi esiste l’ebraismo lo si deve anche e soprattutto ai farisei. Furono loro il nucleo duro sul quale fondare per i secoli futuri l’identità ebraica, e lo dimostra la loro sopravvivenza alla formidabile crisi nel 70 d. C. Sopravvissero a incendi, massacri, distruzioni, conversioni. Fu la scuola farisaica, resistendole vittoriosamente, a perpetuare il giudaismo preservandolo dalla soluzione finale romana. In un periodo di atrocità e di sterminio operati dalla dominazione imperiale nella Terra d’Israele (I e II sec.), i farisei riuscirono a preservare l’identità spirituale e culturale del popolo ebraico, salvandola dall’annientamento e offrendo tale ricchezza alle generazioni future. Nasce allora il mistero di come abbia potuto diffondersi un giudizio, o meglio il pregiudizio, così ingiusto contro una corrente spirituale, il fariseismo, diventato secondo Finkelstein, “la base della più alta struttura intellettuale e spirituale che il mondo abbia veduto: cioè, la civiltà occidentale”.
Chiede lo storico Bruno di Porto nell’ultimo numero del periodico ebraico Hazman Veharaion, il Tempo e l’idea: “Johanan ben Zakkai, che assicurò la sopravvivenza del giudaismo nella rovina dello Stato e del Tempio, con la scuola di Javne, rientra anche lui nel gruppetto indurito, facile a scivolare dall’indurimento nella corruzione, di cui ha parlato Papa Bergoglio, nell’omelia?”. Anna Foà in questi giorni ha lanciato una nuova e bella collana editoriale digitale, “Tiqqun”. Il primo libro in uscita è “La fine di Gerusalemme”, il capolavoro da tempo scomparso dalle librerie italiane di Lion Feuchtwanger, l’autore dell’indimenticabile “Süss l’Ebreo” morto in esilio in California. Nel romanzo, Feuchtwanger racconta proprio del più famoso dei maestri farisei, Johanan ben Zakkai.
Contemporaneo di Gesù, di Vespasiano e di Tito, Ben Zakkai era uno di questi “sepolcri imbiancati”, gli intellettuali e maestri della Legge. Durante la distruzione di Gerusalemme, fingendosi morto, Ben Zakkai si fece trasportare dentro una bara fuori dalla città. Portato dal comandante dei Romani, Vespasiano, il saggio ebreo gli profetizzò l’ascesa al trono imperiale, chiedendogli al tempo stesso la possibilità di fondare una sua scuola a Yavne. Appena divamparono le fiamme del Tempio, Zakkai trasferì alla sinagoga le funzioni essenziali proprie del Tempio, salvando così l’ebraismo. Giuseppe Flavio non capiva un simile carattere calmo e senza ambizioni, anzi Ben Zakkai gli faceva quasi paura e lo opprimeva; tanto che preferiva evitare il gran dottore. Feuchtwanger ci consegna pagine bellissime su questo “giudeo vecchissimo, piccolo, molto ragguardevole, i cui occhi azzurri spiccavano con strana freschezza nel suo volto tutto rughe incorniciato da una barbetta stinta”.
Fu in una colombaia a Yavne, al piano superiore di una casa nella città che oggi fa parte dello Stato d’Israele, che gli ultimi farisei fecero i calcoli del calendario ebraico e completarono la canonizzazione della Bibbia. Da quella bara, il fariseo resuscitò il giudaismo distrutto. Ma gettò anche le basi per la cultura occidentale.