Sono trascorsi novantanove anni dalla scomparsa di Giovanni Verga, morto a Catania il 27 gennaio 1922. Il suo nome evoca ro-manzi come: “I Malavoglia” e “Mastro don Gesualdo”, l’opera teatrale “Cavalleria rusticana” e, a cascata, altri scritti tra i quali le novelle: “Nedda”, “Vita dei campi”, “Novelle Rusticane” e “Per le vie”. Sarebbe veramente velleitario, nel ricordarne l’anniversario, pensare di poter aggiungere qualcosa a quanto ormai è del tutto noto della vita di quest’uomo, scrittore, drammaturgo e senatore del Regno d’Italia.
Ciò che è meno nota è la capacità espressiva del Verga nella fotogra-fia, arte che aveva da sempre amato e a cui in età matura, tornato in Sicilia, ebbe a dedicarsi in modo più intenso. Nel corso della sua attività di fotografo rivolse l’obiettivo in tutte le direzioni e non tralasciò di fotografare nulla di tutto ciò su cui posava lo sguardo. Quelli di metà Ottocento erano, del resto, gli anni in cui la tecnica fotografica si stava perfezionando, con l’utilizzo delle lastre di vetro e con i processi di sviluppo al collodio e alla gelatina, suscitando grandi entusiasmi per le immagini ben nitide che si ottenevano. Quel che resta di tutta questa intensa attività di fotografo sono centinaia di foto, tra cui tanti panorami e scorci di Catania, della sua Vizzini e delle città del Nord Italia in cui si era trovato. Non mancano le foto di parenti e conoscenti, qualche autoritratto e le immagini di uomini illustri, suoi contemporanei, quali Luigi Capuana, Federico de Roberto, Salvatore Paola.
Ma l’ambito in cui il Verga mostrò la sua particolare sensibilità, sono le foto della gente del popolo e dei contadini, colti sui luoghi della loro quotidianità. Dove all’umiltà del loro vivere si contrapponeva, spesso, la fierezza del portamento degli uomini e dei loro sguardi. Questo è il caso della foto di massaro Filippo, il campiere, con il suo schioppo in spalla e il fazzoletto annodato al collo, come fosse un elegante foulard, del 1897. Volti scavati dalla fatica e bruciati dal soledi Sicilia. Grappoli di bambini ritratti qua e là che, con la loro magrezza, ci ricordano quanto dura e difficile fosse l’infanzia per tanti, ancora agli inizi del secolo scorso. Resta nel tema la foto di una bambina del 1911, in cui l’ovale del viso emerge dall’ombra della fine-stra di una povera casa di pietre e calce, sita in zona Novalucello (Catania), il cui sguardo interrogativo sembra ancor oggi interpellarci.
Già da qualche decennio tutte queste foto sono agevolmente godibili grazie all’infaticabile attività di ricerca e catalogazione di Giovanni Garra Agosta, che vi dedicò gran parte degli anni della sua vita, curandone pure la divulgazione con opere editoriali anche di particolare pregio quali “Verga Fotografo” (Giuseppe Mai-mone Editore 1991, Catania).
Ma le ricerche di Garra Agosta non si limitarono alle sole foto. Egli infatti volle lasciare una traccia inedita e inconsueta della vita sentimentale dello scrittore, raccogliendo, decifrando e catalogando pure le lettere manoscritte che il Verga, per alcuni decenni, appassionatamente ebbe a inviare alla donna di cui fu ardentemente innamorato, Paolina Greppi Lester, figlia primogenita del conte Giacomo Greppi. Verga la conobbe a Milano nel 1878, quando la giovane, appena ventisettenne, era rimasta vedova, con un figlio di sei anni. Sebbene fosse quattro anni più giovane di lei, ne subì intensamente il fascino, innamorandosene. Lo splendido idillio, così come è stata definita la loro storia d’amore, sarà motivo di profonda ispirazione per tutta la sua opera.
Di Paolina rimangono alcune foto e tra le più significative vi è quella scattata a Mendrisio, nel Canton Ticino, dove la giovane donna, stretta nel suo corsetto, con l’ombrellino da sole e un cappellino svolazzante, appare del tutto e per tutto simile, nella sua leg-giadra eleganza, alle damine che Claude Monet, in quegli stessi anni, immortalava in tele di grande suc-cesso, quali “La passeggiata” o “Campo di papaveri”.