Il dialogo, marchio di fabbrica dell’identità ebraica
di Massimo Giuliani
30 settembre 2021
Se è la relazione con l’altro a definire una visione del mondo
La XXII giornata europea della cultura ebraica (che si celebra quest’anno il 10 ottobre) ha come tema il dialogo, anzi i dialoghi, al plurale. Argomento bello e pertinente, da molti punti di vista. Non solo la cultura ma tutta la vita ebraica, che si declini in termini religiosi o laici, è impensabile fuori da un contesto relazionale e dialogico. Quando nel 1923 Martin Buber diede alle stampe il suo capolavoro filosofico Ich und Du – Io e tu – non solo gettò le fondamenta della cosiddetta “filosofia dialogica”, ma offrì al contempo uno dei più profondi messaggi ebraici a tutta la cultura europea e proprio alla vigilia dell’avvento delle grandi dittature liberticide, della seconda guerra mondiale e della Shoà. Offriva i tesori di un umanesimo religioso imperniato sull’apertura del soggetto, l’io, all’altro cioè al tu, un’apertura che prende il nome di dialogo, incontro, relazione. Io e Tu, con altri scritti buberiani su questi temi, fu tradotto in italiano in un volume intitolato Il principio dialogico, edito la prima volta nel 1959 dalle olivettiane Edizioni di Comunità: “Ogni vita effettiva è incontro – scrive Buber – (…) all’inizio è la relazione (…) e la relazione è reciprocità”. Buber scriverà poi un saggio con il medesimo titolo nel 1962.
Israele esiste perché Dio gli ha dato del ‘tu’, lo ha chiamato e coinvolto in un dialogo d’amore che i maestri hanno celebrato attraverso il Cantico dei cantici. Israele ha risposto e reciprocato: barukh attà, benedetto Tu… Dando del Tu a Dio, Israele scopre se stesso. Il dialogo c’è anche quando tale relazione diventa difficile, onerosa, problematica: il rapporto con il ‘Tu verticale’ può non essere esplicito, ma anche in forma implicita, persino se rimosso o negato, inventa e costituisce l’ebreo e lo rende diverso. Da tale diversità nasce l’incontro, e l’eterna possibilità dello scontro, con il non-ebreo, il goj/i gojim intesi come ‘le nazioni’ ossia il ‘tu orizzontale’, che per l’ebraismo resta altrettanto necessario e costitutivo del Tu verticale. Impensabile sarebbero la Torà e i profeti senza il Tu, sia quello verticale sia quello orizzontale. Impensabile sarebbe tutta la cultura ebraica senza il valore e la prassi dell’incontro dialogico, dei ‘dialoghi’ appunto.
La Torà racconta come il primo omicidio, che è simbolicamente un fratricidio, accade per via di un dialogo mancato (Abele non risponde a Caino!). Dopo la chiamata, Abramo parla e discute con Dio sul destino di Sodoma, e il midrash lo mette al centro di intensi dialoghi anche con il suo ambiente politeista a Ur di Caldea: dialoghi delicati, di natura teologica diremmo oggi, e dai risvolti drammatici. Il dialogare di Isacco resta più intimo, in famiglia, come si addice a questo patriarca più sedentario. Giacobbe invece dialoga, o meglio discute e negozia con Labano, rompe e si riconcilia con Esaù, si confronta con i suoi figli sulla sorte di Dina e di Giuseppe… Cosa poi sarebbe il libro di Giona senza il riv, il litigio finale tra il profeta e Colui che lo ha inviato a Ninive? Cosa sarebbe il libro di Ruth senza i dialoghi tra questa giovane moabita e sua suocera, Naomi? Il dialogo è domanda e risposta, ascolto, obiezione, protesta, sollevazione di dubbi, ricerca condivisa. Non è questa la tessitura del Talmud, inteso sì come il corpus di elaborazione normativa (halakhica) del giudaismo ma anche solo come studio, come metodo di studio? Non si studia mai da soli, nella cultura ebraica, bisogna essere (almeno) in due; e bisogna cercarsi un maestro a cui fare domande, con cui relazionarsi e confrontarsi. Esprimendo anche il proprio dissenso, come fanno i maestri tra loro attraverso la machloqet ossia la diatriba e il diverbio. Potrebbe esistere il Talmud senza le discussioni – ossia gli accesi dialoghi alla ricerca della verità – tra le scuole di Hillel e di Shammaj, oppure tra rabbi Eliezer e rabbi Yehoshua, oppure tra Rav e Shmuel? Persino lo Zohar, il grande commentario mistico alla Torà, ha una struttura dialogica, in quanto catena di insegnamenti che si dipanano in dialogo tra rabbi Shim‘on bar Yochai e i suoi discepoli.
Qualcuno potrebbe dire: ma il ‘dialogo’ non è un’invenzione greca? Anche il termine lo è! Vero, il termine lo è ma guardiamo da vicino i famosi dialoghi di Platone: sono veri dialoghi oppure si tratta di un mero genere letterario? Gli interlocutori di Socrate gli pongono brevi domande fittizie sì che possa esporre i propri ragionamenti… non sono diatribe o discussioni, veri incontri tra punti divista diversi; sono, a ben vedere, monologhi travestiti da dialoghi. Un po’ come le riflessioni di Qohelet, uno dei testi biblici (non a caso molti vicini alla cultura ellenistica e coevi a quella cultura) in cui il principio dialogico è assente. In Platone, come in Qohelet, c’è molta sapienza, ma non c’è pathos né empatia e neppure l’imprevedibile del dialogo vero, che avviene soltanto quando il tu che hai dinanzi, che ti si rivolge e a cui parli, irrompe nel mono-tono dell’io, che neppure sa di essere io, e lo costituisce come soggetto e persona. Paolo De Benedetti ripeteva: “Quando Dio, stanco della Sua solitudine, ha deciso di creare il mondo ha detto ‘tu’, e così ha fatto il primo anagramma dell’universo: l’ain (il nulla) è divenuto anì (io)”. È sempre l’idea buberiana: solo l’apertura all’altro nel dialogo ci permette di sapere chi siamo, di conoscerci, di realizzarci come persone.
Ma se il dialogo interno è il marchio di fabbrica dell’identità ebraica – che sia verticale come nella tefillà (la preghiera), oppure orizzontale come nello talmud Torà (lo studio dei testi) – il dialogo con l’esterno, con il mondo non ebraico, non è meno importante e sin dall’inizio rappresenta lo scopo della chiamata, della benedizione divina. I profeti hanno ricordato spesso la vocazione universale dello stesso Tempio, che sarà casa di preghiera per tutti i popoli: se Israele è a sua volta una forma mobile di presenza divina nel mondo (è la grande lezione della qabbalà), è impensabile che ciò non si traduca in relazione e incontro, e dunque in dialogo con quel mondo, con le sue culture e le sue religioni. La storia del giudaismo è in buona parte storia delle complesse – ora amicali, ora conflittuali – relazioni tra ebrei e non ebrei, tra istituzioni comunitarie ebraiche e istitizioni non ebraiche, laiche ed ecclesiastiche. Il dialogo interreligioso non è stato inventato nel nostro tempo; è antico come Abramo o come i maestri di Babilonia; è stato molto praticato in età rinascimentale, specie in Italia… su su fino a Benamozegh e ai protagonisti degli incontri ebraico-cristiani odierni, come Lea Sestieri e rav Giuseppe Laras.
Questo tipo di dialogo non è mai mancato in nessun periodo della storia ebraica, e mai mancherà, perché il confronto e l’interazione del giudaismo con l’ambiente in cui è inserito resta vitale per l’ebraismo stesso (in Medioriente, oggi è vitale per lo Stato di Israele dialogare con i suoi vicini arabi, e con gli stessi palestinesi; a New York come a Roma o a Milano è vitale la relazione con le istitizioni pubbliche, con le università, con le chiese, con le moschee…). Dialoghi, dunque, al plurale, per celebrare non solo le molte culture ebraiche che quei dialoghi hanno storicamente prodotto, ma anche per rivitalizzare il principio che le ha generate e le tiene in vita.
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Massimo Giuliani
insegna Pensiero ebraico all’università di Trento e Filosofia ebraica nel corso triennale di Studi ebraici dell’Ucei a Roma"
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