Mosè, principale patriarca e primo profeta del popolo di Israele, riconosciuto ed onorato da tutte le principali religioni monoteistiche, presente come protagonista nei libri della Torah di Esodo, Numeri e Deuteronomio, personalità fondante dell’ebraismo, ritengo debba l’ampia e diffusa popolarità di cui gode, ai nostri giorni, non tanto alla copiosa letteratura che lo ha riguardato, descrivendolo come l’artefice della madre di tutte le rivoluzioni dell’umanità, bensì alla cinematografia del secolo da poco trascorso.
Chi non conosce il film “I dieci comandamenti” del 1956, con Charlton Heston, Yul Brynner, Anne Baxter e tantissimi altri divi del grande schermo? Quanti sono, bambini ed adulti, che non si sono lasciati catturare dal fascino del cartone animato “Il principe d’Egitto” del 1998? L’elenco delle opere cinematografiche in cui è protagonista assoluto sarebbe lungo e molte tra queste opere, ancor oggi, continuano a riscuotere l’interesse del pubblico.
Le Scritture ci presentano Mosè come un fanciullo di famiglia israelita, nato in un’epoca in cui il suo popolo, ormai da quattrocento anni, viveva in stato di cattività in Egitto, dove inizialmente e volontariamente era migrato per sfuggire alla carestia. Il faraone sovrano e divinità, che impersonava quella che oggi definiremmo una superpotenza tra le nazioni, traeva grande utilità dallo stato di soggezione in cui aveva abilmente indotto questi immigrati. Per evitare che gli ebrei potessero insorgere avverso la dura schiavitù in cui vivevano, stabilì di privarli della forza delle nuove generazioni ed a tal fine aveva decretato l’uccisione dei figli maschi, nati in ciascuna famiglia, certo di indebolirne le capacità di ribellione.
La madre di Mosè e la sorella, non potendo accettare questo infausto destino per il loro piccolo, lo posero in un cestino capace di galleggiare e lo affidarono alle acque del Nilo, dove, la narrazione vuole, venne raccolto dalla principessa, figlia dello stesso faraone infanticida, che lo condusse a corte e lo fece vivere educandolo e istruendolo secondo gli usi di quella colta e raffinata nobiltà. Inaspettatamente, un giorno la vita del giovane Mosè cambiò quando, intervenendo per difendere uno schiavo ebreo dalla soverchiante violenza di un sorvegliante, che lo stava picchiando a morte, uccise l’aguzzino.
A fronte dell’accaduto a Mosè non restò che fuggire lontano dall’Egitto, per evitare di essere condannato per l’omicidio di cui si era reso responsabile. Quando, nel corso del lungo esilio, la sua vita sembrava aver raggiunto finalmente una nuova sistemazione, anche se molto più umile della precedente ma comunque felice, in quanto benedetta dalla formazione di una famiglia, ecco che all’improvviso irrompere, con tutta la sua travolgente autorevolezza, nella vita di quest’uomo, Dio che gli impone di liberare il suo popolo dalla lunga schiavitù, sofferta nella terra del Nilo.
Mosè non ritiene di averne le capacità, vorrebbe rifiutarsi, accampa le sue ragioni, ma nel dialogo con la Trascendenza ne esce vinto e quindi, accompagnato dal fratello Aronne, che ha il compito di aiutarlo, ma soprattutto con la presenza costante di Dio a suo fianco, intraprende questa impresa, che inizialmente sembra impossibile, ma in cui alla fine riuscirà attraverso i fatti prodigiosi, che i tanti film, sul tema, hanno saputo illustrarci, stupendoci, a liberare gli ebrei dalla schiavitù, farne un popolo e renderli liberi, consegnando loro la Legge.
Certamente la forza del prestigio e della notorietà di Mosè, gli deriva in parte dall’eccezionalità dei fatti, da come si sono svolti, dal merito di essere stato condottiero prima e organizzatore e legislatore successivamente, ma in capo ad ogni cosa il carisma di Mosè è da ascrivere alla eccezionalità della natura del rovesciamento radicale a cui ha dato luogo, sottraendo il debole dalle grinfie del potente che impietosamente lo dilania.
Il rabbino Hain Fabrizio Cipriani, nel suo libro “I Settanta volti” (Edizioni Messaggero Padova) ci ricorda che Benjamin Franklin e Thomas Jefferson avevano individuato nell’immagine di Mosè che conduce gli ebrei fuori dall’Egitto il simbolo della rivoluzione e del riscatto americano ed ancora che analogamente per l’indipendenza italiana il coro “Va pensiero” dal Nabucco di Giuseppe Verdi, in cui gli ebrei anelano alla libertà ed al ritorno alla loro terra, divenne metafora della sudditanza italiana sotto il dominio austriaco, in quanto la insurrezione condotta da Mosè è il prototipo e l’esempio per tutti coloro che hanno lottato per rivoluzionare la realtà sociale di un popolo.