A ottobre, e per otto giorni, ha luogo la “Festa delle Capanne” (Sukkot). Le origini della Festa sono rintracciabili nella Bibbia (Torah), e hanno un preciso collegamento al raccolto e all’abbondanza e ancor più alle precarie dimore, nelle quali abitarono gli israeliti durante il loro lungo peregrinare per il deserto, durato ben quarant’anni (Levitico 23,42).
Questa festa, come tutte le feste di pellegrinaggio, rappresenta un momento di grande gioia e allegria, anche se il messaggio che trasmette è ricordarci la fragilità e la provvisorietà della vita.
La tradizione vuole che durante la festività si costruisca una capanna all’aperto, con precise caratteristiche che ne evidenzino la provvisorietà. Infatti deve essere realizzata in legno, canna e altro materiale di origine vegetale. La copertura, meglio se di rami e foglie, deve lasciare intravedere il cielo. All’interno della capanna vi si deve trascorrere quanto più tempo possibile, consumandovi i pasti, e la famiglia si riunisce in compagnia delle persone care.
Malgrado questa gioiosa ricorrenza, in ottobre, ogni anno, porta con se il doloroso ricordo di alcuni indimenticabili tragici eventi verificatisi nel corso di questo mese.
Il 16 ottobre 1943, nel ghetto di Roma, oltre mille ebrei, senza distinzione di sesso e di età, vennero rastrellati dai nazisti per essere deportati, con modi disumani e tra indicibili sofferenze, nei campi di sterminio di Aushwitz-Birkenau, da cui solo sedici persone fecero ritorno.
Il 9 ottobre 1982 si è consumato il luttuoso attentato alla sinagoga di Roma. Due morti e quaranta feriti gravi. Anche questa volta senza distinzione di sorta tra le vittime. Uno dei morti era un bambino di soli due anni, il piccolo Stefano Gaj Tachè.
In ultimo in ordine di tempo, e soli pochi giorni fa, il 9 ottobre 2019 l’attentato alla sinagoga di Halle in Germania, due morti, scelti a caso sulla strada e solo perché rinvenuti a tiro. La porta d’ingresso del tempio, prontamente serrata, ha resistito all’assalto dell’attentatore e ciò ha impedito che vi fosse un maggiore numero di vittime.
Cosa induce ancor oggi, nel 2019, a perpetrare atti, che quando non sono cosi violenti e sanguinosi, sono portatori di una non meno pericolosa violenza verbale. È una domanda alla quale ciascuno pensa di poter dare una risposta diversa. Cerco di darmene una anch’io, prendendo spunto da una riflessione apparsa a metà settembre, sulla pagina Facebook del rabbino Haim Fabrizio Cipriani, noto per essere in Francia la guida spirituale delle comunità Ulif di Marsiglia e Kehilat Kedem di Montpellier e in Italia promotore della comunità ebraica Hetz Haim.
Il Rav, è cosi che ci si rivolge ai rabbini nel linguaggio corrente, evidenziava nella sua attenta considerazione, che quando la parola ebreo viene usata in modo dispregiativo, quel che viene posto in evidenza non è tanto l’avversione nei confronti della persona di fede o di familiarità ebraica, bensì quello che oggi rappresenta. Ossia una cultura diversa da quella dominante, basata principalmente sullo studio e sull’approfondimento e quindi che prende posizione contro la superficialità in genere e ad ogni tipo di comunicazione che utilizza solo suggestioni. Oggi la comunicazione, al grande pubblico, viene affidata a messaggi brevi e spesso portatori di annunci sorretti da una logica meramente apparente, che spesso, ripetuti, si trasformano in martellanti slogan.
Il rabbino puntualizzava che questo uso improprio e offensivo della parola ebreo non si verifica soltanto laddove la cultura è sconosciuta e anzi disprezzata, ma anche in ambienti, apparentemente, intellettualmente e socialmente più elevati, che appaiono colti e raffinati, ma che tali nella sostanza non lo sono. Che la vita ebraica sia interamente articolata intorno allo studio e alla riflessione è cosa che emerge agevolmente allorché si passi dal preconcetto a una valutazione oggettiva e specifica di questa cultura. Ma tutto ciò è, e resta, fonte di diversità che si trasforma ben presto in discriminazione. Questo “andare contro” che caratterizza il pensiero ebraico, è esattamente il contrario di “andare con”, che comporta approvazione, spesso incondizionata, e imitazione degli altri, ed è un pensiero che richiede la costante e ben più impegnativa affermazione di noi stessi, tralasciando di coltivare ogni forma di istinto gregario o di ricerca della comodità nella vita, per pensare con la propria testa. Oggi occorrerebbe tornare a meditare su insegnamenti antichi che ci suggeriscono che le parole, per troppo tempo, usate per colpire e scagliate come sassi, entrino in una logica di positiva costruzione, per la realizzazione di una casa comune che ponga l’umanità a riparo da odi, violenze e intolleranze.
Giuseppe Sciacca