Mentre tutto il mondo sta vivendo il dramma della pandemia del Covid 19, anche quest’anno, dall’8 al 16 aprile, si celebra Pesach, la Pasqua ebraica.
In un momento in cui questo morbo ha fatto saltare le più granitiche certezze di progresso scientifico e tecnico, attentando mortalmente alla nostra economia, ci si interroga su quale messaggio, in termini di attualità, possa trarsi da questa ricorrenza, che ricorda il momento in cui i figli di Israele divennero un popolo libero ed è pertanto il simbolo stesso della libertà.
Per cercare di intuire il senso di questa celebrazione bisogna, innanzi tutto, considerare che Pesach si colloca, contestualmente, nelle due dimensioni del tempo, e quindi mette in relazione il passato con il futuro. Infatti, per un verso è evocazione di fatti rivoluzionari, avvenuti in un’epoca lontana, fatti che gli ebrei ogni anno rivisitano, non come un freddo rito commemorativo, ma che vivono e percepiscono nel presente tornando ad avvertire la sofferenza dell’oppressione che si trasforma in gioia viva. Quindi, il trascorso diviene promessa e un impegno di vita per il futuro.
I fatti che si celebrano sono narrati dalla Bibbia, la Torah, nel libro dell’Esodo e riguardano la liberazione degli ebrei dalla dura schiavitù del faraone egiziano. Come scrive il rabbino Hain Fabrizio Cipriani, nel libro “I settanta volti” (Edizioni Messaggero Padova) siamo al cospetto di un fatto che rivoluziona le più scontate dinamiche naturali, secondo le quali il più forte necessariamente sovrasta e domina il debole. La narrazione dell’Esodo è, in conseguenza di questa sua incontenibile vitalità, ispiratrice di molteplici avvenimenti, in cui viene messo in atto il tentativo di liberare l’uomo dalle catene della costrizione. Tanti, pur senza essere ebrei, ne anno avvertito la dimensione che attraversa la storia. Benjamin Franklin e Thoma Jefferson volevano che l’immagine di Mosè che conduce gli ebrei fuori dall’Egitto divenisse il simbolo dell’esperienza americana nella formazione dello stato nazionale. Ancora in quella terra, più tardi, nella seconda metà del secolo scorso, gli afroamericani che si battevano per il riconoscimento dei loro diritti civili avvertivano di vivere un’esperienza non diversa da quella della liberazione degli ebrei dalla schiavitù subita in terra di Egitto. Ma guardando cose che più direttamente ci riguardano, il coro “Va pensiero” del Nabucco di Giuseppe Verdi, in cui gli ebrei anelano al ritorno alla libertà e alla loro terra, fu adottato dai patrioti del risorgimento italiano come metafora della condizione di sofferenza del nostro popolo sotto il dominio austriaco.
Nella storia pochi eventi, come i fatti narrati in questo libro della Torah, sono significativi della forte volontà di sovvertire il vecchio per dare spazio e vita al nuovo, per ridare pienezza all’uomo e consentirgli di riacquistare quella dignità che è una sua irrinunciabile prerogativa, in quanto creato a immagine di Dio. Se questo è Pesach, nella storia e nella tradizione, su altro fronte, guardando il futuro e i giorni a venire, è agevole percepire come meglio di ogni altra cosa rappresenta la promessa di riscatto e la volontà di liberazione da ogni schiavitù cercata o subita.
Pesach è quindi libertà, una parola difficile da definire e che si presta a tante interpretazioni e quindi anche a essere strumentalizzata come legittimazione di ogni abuso, tra cui è diffuso contrabbandarla come possibilità di fare tutto quello che si vuole, senza regole e senza limiti, restando indifferenti alle conseguenti violazioni della sfera delle attese degli altri, senza, peraltro, avvertire che questo malinteso concetto di libertà soffre di una insanabile precarietà e transitorietà che ne comporta prima o poi il tracollo, nel momento in cui sulla scena appare un uomo o un gruppo più potente e prepotente del precedente.
La libertà di cui oggi abbiamo necessità è quella spirituale, senza la quale non si possono affrontare, superare e travalicare momenti mesti come quello che tutti stiamo vivendo in questo tempo, in cui anche la primavera sembra trattenere il suo respiro, lasciando incerto e lento il risveglio della natura.