La Sicilia è uno scrigno prezioso di reperti d’interesse storico e culturale di matrice ebraica. A Siracusa, ad Ortigia, si trova un mikveh (bagno per la purificazione rituale) risalente al VI secolo d. C. uno dei pochi esistenti, in ottimo stato di conservazione, che viene visitato da turisti provenienti da tutto il mondo. Ad Agira, in provincia di Enna, è custodito un aron, in pietra finemente intagliata, una tra le tre più antiche arche sinagogali d’Europa. L’elenco di questi beni potrebbe proseguire a lungo, ma la elencazione di questi tesori sarebbe, comunque, monca se non si ricordassero le tante giudecche (quartieri ebraici) dell’isola, che ancor oggi si conservano, e che sino alla data di espulsione degli ebrei dalla Sicilia (1493) erano ricche di vita ed attività. Siti rimasti fuori dai circuiti del turismo e spesso dimenticati, come le giudecche di Modica, Castiglione di Sicilia e tanti altri non di minore rilevo. In questo contesto Catania, appare spoglia di un rispondente patrimonio, sebbene sia certo che dal secondo secolo d. C. abbia ospitato una popolosa cittadinanza ebraica, come confermato dal rinvenimento di lapidi funerarie di sicura datazione. La carenza di reperti archeologici ebraici è da imputare sia alla possente eruzione dell’Etna del 1669, le cui lave attraversarono la città, coprendone interi quartieri, sino a giungere al mare, ed al successivo devastante terremoto del 1693, che rase al suolo quanto la lava aveva risparmiato. A ciò si aggiunse l’opera non meno devastante della mano dell’uomo, sia per il succedersi di dominazioni straniere incuranti di custodire la memoria storica della città, sia per l’incendio appiccato, nel dicembre del 1944, al palazzo comunale di Catania dai giovani della classe di leva 1922-1944, che in tutta la Sicilia protestavano contro la chiamata alle armi, in un momento in cui le sorti della guerra apparivano segnate. Incendio le cui fiamme si propagarono all’Archivio comunale, cancellando la memoria collettiva della città. Oggi quanto è in gran parte noto della comunità ebraica che ha vissuto a Catania, sino alla sua espulsione avvenuta in forza del decreto dell’Alhambra, emanato dai sovrani di Spagna, è noto solo grazie al recente rinvenimento negli archivi della locale Università della tesi di laurea, in Lettere e Filosofia, dello studente Carmine Fontana, che la discusse, il 21 novembre del 1900, ottenendo il massimo dei voti, la lode ed il diritto alla pubblicazione. L’elaborato era intitolato “Gli ebrei a Catania (sec. XV); nel testo del manoscritto il suo autore non mancava di raccomandare ai posteri: “chi farà la storia di Catania non può né deve in alcun modo trascurare di occuparsi de’ Giudei. Questo io ho fatto cercando di trattare con amore, ma a un tempo con imparzialità”; oggi grazie a queste pagine, è possibile conoscere con affidabile certezza, non solo i costumi, le usanze, i riti e le attività lavorative di queste genti, ma anche stimare la loro non indifferente consistenza demografica, visto che nel XV secolo, erano pari ad un settimo dell’intera popolazione cittadina. Il Fontana ha pure avuto il merito sia di catalogare un grandissimo quantitativo di documenti riguardanti gli ebrei di Catania, sia di delimitare i confini delle due giudecche catanesi. Operazione di ricostruzione, in vero, pure effettuata da altri studiosi con risultati topografici che di volta in volta, presentavano divergenze, a secondo della mano che li aveva tracciati. E’ opportuno chiarire che le giudecche nulla hanno a che vedere con i ghetti, giacché a differenza di questi ultimi, non erano luoghi in cui la permanenza veniva imposta ed assoggettata all’obbligo vigilato di permanenza notturna. A Catania la prima giudecca fu voluta dagli ebrei, per una loro esigenza di non avere continui contatti con la restante popolazione della città, tutta cristiana, con la quale non mancavano frequenti attriti, anche per la differenza dei costumi e delle abitudini. La seconda venne realizzata per accogliere e dare alloggio all’incremento della popolazione stanziale che negli anni si era registrata. Ciascuna giudecca aveva una propria autonomia ed era dotata degli edifici pubblici necessari per soddisfare tutte le esigenze della vita dei propri abitanti. Una vera città nella città, giacchè la giudecca disponeva di una propria organizzazione amministrativa, riconosciuta dalle autorità cittadine. La prima, la più antica, nota come Judeca suprana, si estendeva da quella che oggi è la parte sommitale della salita di via Sangiuliano, zona che all’epoca era del tutto desertica, tanto da meritare la denominazione di Montevergine, e costeggiando il fiume Amenano, che proprio a causa della presenza dei giudei venne chiamato Judicello, proseguiva dall’attuale pizza Dante, in direzione dell’odierna via Quartarone, sino a piazza Asmundo, con il limite di via Teatro Greco, dove iniziava, senza soluzione di continuità la Judeca suttana che proseguiva sino a giungere alla odierna Villa Pacini.
Il giovane Fontana per trasmettere ai posteri una idea dell’abbomino della cacciata degli ebrei, che partendo perdevano anche ogni loro avere, a beneficio di chi restava, scriveva nella sua tesi, a proposito del senato catanese: “solito a nicchiar sempre, in quei giorni appare colpito da febbre, tanta è la furia con cui esegue gli ordini regi o viceregi; non solo si mostra lesto, ma fedele e preciso interprete. Degli ebrei neanche una parola, né in bene né in male, sino all’ultimo momento, ma un silenzio altezzoso molto simile all’odio e al disprezzo e che senza dubbio condusse a tramandare ai posteri, con una lapide murata sulla facciata del palazzo senatorio, allora inauguratosi, l’espulsione degli ebrei come di un fatto nazionale, d’una grande battaglia vinta e non di una grande infamia”.
Per chi volesse approfondire l’argomento si consiglia la lettura di: “Gli ebrei a Catania nel XV secolo” di A. G. Cerra, o “Ebrei a Catania dalle origini al 1492” di N. Foiadelli Vinciguerra, entrambi editi dalla Bonanno Editore.